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«𝐈𝐥 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐨 𝐞̀ 𝐩𝐞𝐫 𝐥’𝐮𝐨𝐦𝐨, 𝐧𝐨𝐧 𝐥’𝐮𝐨𝐦𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐢𝐥 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐨»


“Il lavoro è per l’uomo, non l’uomo per il lavoro” è una

frase tornata agli onori della cronaca in questi giorni grazie alla presentazione del “Manifesto del buon lavoro” da parte della Compagnia delle Opere .

Uno slogan che è un po’ il mio mantra a sostegno della scelta personale di occuparmi professionalmente di lavoro.

Un’affermazione quella della “Laborem exercens” di Giovanni Paolo II, dotata di una carica rivoluzionaria. Una delle pietre su cui poggiano le fondamenta della dottrina sociale della Chiesa.

Per Papa Wojtyla infatti lo scopo del lavoro è l’uomo, dunque il criterio di giudizio della sua eticità è la compatibilità con la dignità umana.

Quando invece l’essere umano diventa mero mezzo per realizzare profitto, questo rovesciamento produce ingiustizia, come accade, per esempio, quando l’uomo viene trattato come mezzo di produzione, come un ingranaggio della catena produttivo-economica, e come viene teorizzato dall’utilitarismo e dall’economicismo, che considerano il lavoro soltanto secondo la sua finalità economica.

Quanto stridono queste parole in un periodo come quello attuale dove tutto, persino la dignità della persona, è sacrificato in nome del profitto?

Dove si pensa che i lavoratori debbano adattarsi alle nuove tecnologie anziché le nuove tecnologie adattarsi alle condizioni di vita delle persone per aiutarle ad evolvere.

Ma Giovanni Paolo II va oltre scrivendo che una giusta remunerazione per il lavoro della persona che ha responsabilità familiari è «quella sufficiente per fondare e mantenere degnamente una famiglia e per assicurarne il futuro». E quando il datore di lavoro corrisponde al lavoratore una giusta mercede, tuttavia insufficiente per i bisogni normali del nucleo familiare, lo Stato dovrebbe intervenire «tramite […] provvedimenti sociali, come assegni familiari o contributi alla madre che si dedica esclusivamente alla famiglia», affinché sia una scelta e non una «necessità […] far assumere un lavoro retributivo fuori casa alla coniuge».

E poi aggiunge a proposito delle donne e delle mamme:

«tornerà ad onore della società rendere possibile alla madre – senza ostacolarne la libertà, senza discriminazione psicologica o pratica, senza penalizzazione nei confronti delle sue compagne – dedicarsi alla cura e all’educazione dei figli».

Dunque, scriveva Papa Wojtyla nel 1981, «è scorretto dal punto di vista del bene della società e della famiglia» che vi siano donne che vorrebbero dedicarsi ai figli ma non possono farlo per motivi economici, costrette cioè a lavorare perché un solo stipendio in casa non basta.

Ma quanto siamo stati fortunati ad aver vissuto i 27 anni di pontificato di questo grande Papa?

giorgio_bruzzone

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